Nuove diagnosi senza nuovi trattamenti

The improvement of our investigative and diagnostic capability allows us to recognize early stage or mostly stable diseases in asymptomatic individuals and to treat those patients based on research conducted on more severe and acute conditions. Our main concern is avoiding not to treat a patient because of a missed diagnosis, so that we can avoid regrets and legal troubles. Usually, we do not take into account the opposite risk: overtreatment induced by overdiagnosis. For example, the increased number of diagnoses of pulmonary embolism did not reduce the incidence of death, but increased the number of bleeding from subsequent anticoagulation therapy. Similarly, the widespread detection of troponin increased the number of diagnoses of myocardial infarction solely on the basis of Lab values. In both cases we apply therapeutic strategies that have been proven effective in patients with more advanced and unstable clinical presentations with the risk of doing more harm than benefit. To be reassured by doing more, we risk to do worse. Key words. Overdiagnosis; Overtreatment.

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G Ital Cardiol 2014;15(5):289-292

 Marco Bobbio, S.C. Cardiologia
Giovanni Galvagno, S.C. Geriatria, A.O. Santa Croce e Carle, Cuneo


I progressi tecnologici e strumentali prodotti dall’industria biomedicale sono sorprendenti e di grande utilità per indagare l’organismo con immagini e con dosaggi ematochimici sempre più affidabili e sofisticati. Tutto ciò ha permesso di allargare la nostra capacità esplorativa e diagnostica riconoscendo malattie in stadi sempre più precoci, ma parallelamente non si è modificato il nostro approccio terapeutico, basato su evidenze riferite a patologie più gravi. L’incalzare delle novità impedisce di conoscere a fondo ogni nuovo esame diagnostico (strumentale o di laboratorio), per riformulare la terapia dei pazienti, alla luce di gravità meno rilevanti sul piano prognostico1. Il fenomeno è definito da Domenighetti come la dissociazione diagnostico-terapeutica2. Gli effetti collaterali di una terapia sono costanti, ma se i benefici attesi dal trattamento sono minori (in quanto la patologia è meno grave), non siamo in grado di sapere se i benefici attesi saranno ancora maggiori dei rischi. La nostra principale preoccupazione consiste nel non curare un paziente per un difetto di diagnosi, perché ci esponiamo sempre a rimorsi e talvolta a rivalse giudiziarie. Poco si riflette sul pericolo opposto: il sovratrattamento indotto da sovradiagnosi3. Quali sono le conseguenze della sovradiagnosi per un paziente? I rischi di essere sottoposto a non giustificati trattamenti potenzialmente pericolosi (anticoagulanti, chemioterapici, interventi chirurgici) e a ulteriori test diagnostici (invasivi o con uso di radiazioni ionizzanti) per verificare l’attendibilità di un riscontro occasionale, lo spreco di risorse che potrebbero essere destinate a curare malattie vere e proprie e, non ultimo, l’ansia indotta nel paziente dall’essere inutilmente etichettato come malato4-6. Riflettere sui rischi della sovradiagnosi non può che aiutarci a migliorare la nostra capacità terapeutica. 

LA SOVRADIAGNOSI DI EMBOLIA POLMONARE

Una condizione clinica in passato spesso trascurata, con effetti deleteri per il paziente, è l’embolia polmonare. Oggi, nessun medico di pronto soccorso può permettersi di farsi scappare questa diagnosi e pensa ad escluderla ogni volta che un dolore toracico non è immediatamente spiegabile come una sindrome coronarica acuta. Meglio prescrivere un’angio-tomografia computerizzata (TC) in più che una in meno. Saggio. Ma come interpretiamo e utilizziamo i dati ottenuti dalla TC? Negli Stati Uniti la diagnosi di embolia polmonare è passata dal 1993 al 1998 (data di introduzione della TC) da 58.8 a 62.3 nuovi casi per 100 000 abitanti (+0.5% all’anno) e dal 1998 al 2006 da 62.3 a 112.3 (+7.1% all’anno). Si tratta di una corretta diagnosi che in passato trascuravamo o di un fenomeno clinico in crescita o di un eccesso di diagnosi incongrue? Un dato incoraggiante è che la mortalità dal 1993 al 2006 è diminuita nel tempo, ma sorprende che sia diminuita con maggior rapidità prima dell’introduzione dell’angio-TC (da 13.4% a 12.3%; -1.9% all’anno) rispetto ai 7 anni successivi (da 12.3% a 11.9%; -0.5% all’anno)7. Curioso: molte più diagnosi, riduzione dei vantaggi. Cosa è successo? Con la possibilità di eseguire rapidamente un’indagine radiografica all’arrivo in pronto soccorso e di evidenziare anche piccole embolizzazioni, si è avuta un’esplosione di diagnosi. Paradossalmente, in seguito alla maggior attenzione a evitare fenomeni tromboembolici (mobilizzazione precoce dopo interventi chirurgici, uso di calze elastiche nei pazienti lungodegenti, ampio uso di anticoagulanti durante e dopo un ricovero) avremmo dovuto aspettarci una riduzione del numero di embolie. In effetti, negli anni prima dell’introduzione della TC, la riduzione è stata sensibile, ma si è rallentata negli anni successivi. Si tratta di un’epidemia di embolie polmonari minacciose per la sopravvivenza o un’epidemia di diagnosi occasionali, ininfluenti sulla storia naturale dei pazienti? Il maggior numero di diagnosi riguarda ostruzioni che comprometteranno la respirazione o che non avranno alcuna rilevanza, anche se non diagnosticate e non trattate? È interessante notare che la mortalità ospedaliera per embolia polmonare ha continuato a ridursi in modo costante dal 1993 al 2006, come se le molte diagnosi in più non avessero avuto alcun effetto immediato. In Pennsylvania è stato anche osservato che i pazienti ricoverati per embolia polmonare hanno una minore gravità della malattia rispetto al passato8 e in una recente metanalisi viene confermato che molti emboli identificati sono a livello subsegmentale e non saranno causa di eventi avversi, anche se non trattati9. L’embolia polmonare diventa la quintessenza della diagnosi in medicina10 non perché rappresenta uno dei nostri grandi successi, ma perché raccoglie in sé tutta la complessità della medicina nell’era della medicina basata sull’evidenza: aumentano le diagnosi, aumentano i trattamenti, non si riducono gli eventi. Che male c’è – direbbe qualcuno – a essere più accurati anche su diagnosi ininfluenti? Analizzando i dati per gli stessi due intervalli di tempo, si scopre che le emorragie intraospedaliere, avvenute in pazienti ricoverati con diagnosi di embolia polmonare, sono aumentate del 2.1% all’anno nel primo periodo e del 7.0% all’anno nel secondo e le emorragie intracraniche sono aumentate del 4.8% e del 7.9%. Questi dati si riferiscono solo all’immediata osservazione intraospedaliera: quale sia l’incidenza di emorragie a lungo termine non è noto, ma è certamente maggiore. Un prezzo che si può pagare per prevenire le drammatiche complicazioni provocate dall’embolia, ma non certo per prevenire diagnosi occasionali che non avranno conseguenze cliniche: un aumento del rischio senza un aumento del beneficio. Ai risultati di questa analisi, basata su dati amministrativi, si contrappone una recente ricerca prospettica11 condotta su due casistiche comprendenti oltre 3700 pazienti consecutivi con sospetto di embolia polmonare. Dividendo i pazienti in tre gruppi (embolia prossimale, distale, senza embolia) è stato osservato che il rischio di recidiva e la mortalità nei primi due gruppi non erano significativamente differenti, ma erano aumentatati rispetto ai pazienti ai quali era stata esclusa la diagnosi. Inoltre il rischio di emorragia non era differente nei due gruppi di pazienti con embolia polmonare prossimale o distale, trattati con anticoagulanti. I dati della letteratura sollevano un dubbio, senza risolverlo completamente, sui vantaggi di individuare i pazienti con embolia polmonare periferica e pongono il clinico nella difficile condizione di dover decidere, in assenza di dati univoci, se iniziare un trattamento anticoagulante. Come sostiene Fiona Godlee12 nell’editoriale di accompagnamento a un articolo di Wiener et al.13 sul British Medical Journal, “non tutti gli emboli devono essere trattati: dopo essere stati adeguatamente informati, i pazienti stabili, con embolia polmonare periferica, possono scegliere se venire controllati nel tempo piuttosto che anticoagulati”. La scelta della terapia anticoagulante dipenderà dalla valutazione clinica complessiva del paziente, dell’entità dell’embolia periferica, dei fattori di rischio e delle comorbilità, evitando di applicare in modo dogmatico l’assioma embolia = anticoagulanti.

 

LA SOVRADIAGNOSI DI INFARTO MIOCARDICO

Classificazione

L’introduzione del dosaggio della troponina ha rivoluzionato i nostri criteri diagnostici, allargando enormemente lo spettro di pazienti che etichettiamo come infartuati, includendo anche chi ha sviluppato una piccola area di necrosi. L’attuale definizioneinternazionale14, ripresa dalle linee guida europee del 201215, definisce che il termine “infarto miocardico acuto deve essere usato quando c’è la dimostrazione di una necrosi miocardica, associata a una condizione clinica indicativa di ischemia miocardica”. In accordo con le linee guida della National Academy of Clinical Biochemistry, “in presenza di una storia clinica compatibile con una sindrome coronarica acuta, la concentrazione massima di troponina che supera in almeno una rilevazione nelle prime 24h dopo l’evento clinico il 99° percentile del valore, rispetto a un gruppo di riferimento, è considerata indicativa di necrosi miocardica, corrispondente alla diagnosi di infarto miocardico” 16. Secondo le linee guida della Società Europea di Cardiologia sulle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST “ai pazienti che si presentano con un dolore anginoso senza modificazioni elettrocardiografiche [...] e che hanno valori patologici di troponina, si deve porre la diagnosi di infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST o di angina instabile”17. In tal modo, accettando che ogni necrosi miocardica (escluse eziologie infettive o traumatiche) costituisce un infarto miocardico, molti pazienti che anni fa sarebbero stati dimessi con diagnosi di dolore tipico con coronarie sane o di angina instabile, vengono etichettati come affetti da infarto con o senza sopraslivellamento del tratto ST18, facendo sorgere a qualcuno il sospetto di essere di fronte a quadri di troponinite asintomatica19. Ciò viene confermato da una revisione dei dati amministrativi di una contea del Minnesota dai quali risulta che le diagnosi di infarto, con i nuovi criteri, sono aumentate del 37%20. Infatti, quando i pazienti ricoverati con dolori suggestivi di malattia ischemica erano stati classificati secondo i precedenti criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (che non teneva conto dei valori della troponina) e con i criteri definiti dalle linee guida europee e americane si era osservato che i primi avevano una mortalità a 1 anno maggiore dei secondi.

Diagnosi differenziale

Valori elevati di troponina possono essere riscontrati in soggetti senza nota cardiopatia organica21,22, in malattie che coinvolgono altri organi23 e in tutte le malattie che provocano un danno miocardico non dipendente da una malattia coronarica (scompenso acuto, crisi ipertensiva, tachi- o bradiaritmie, miocarditi, contusione cardiaca, cardioversione elettrica, ipotiroidismo, cardiomiopatia tako-tsubo, tossicità da farmaci) o possono essere elevati per interferenza con altri fattori ematici che influenzano il risultato dei test. Peraltro, disponiamo di molti dati a conferma del fatto che i pazienti con un aumento della troponina hanno una ridotta sopravvivenza rispetto a chi non presenta movimento enzimatico, pur correggendo i valori per i principali fattori di rischio coronarico (colesterolo LDL, glicemia basale, indice di massa corporea, ipertensione, fumo); in tal modo si evidenzia l’importanza del danno miocardico, anche silente, sulla prognosi dei pazienti24- 26. Nel contempo non abbiamo evidenze scientifiche sull’efficacia di trattare pazienti con un modesto movimento della troponina sulla base di risultati ottenuti su pazienti che hanno avuto un infarto sulla base dei criteri diagnostici precedenti.

Trattamento

Quali dati abbiamo a disposizione per decidere in modo convincente che un paziente ricoverato per un lieve movimento della troponina debba essere trattato a vita con ACE-inibitori, antiaggreganti, statine ad alte dosi? Siamo sicuri che vengano garantiti loro più benefici che eventi avversi? Tutti noi, quando ci mettiamo a scrivere la lettera di dimissioni di un paziente ricoverato per un dolore atipico, con coronarie sane e un modesto movimento della troponina, ci troviamo di fronte a questo dilemma che di solito risolviamo adottando la semplice quanto assolvente equazione: danno miocardico presente = schema cronico di trattamento. Ci assolviamo, ma non siamo certi di aver fatto il bene del paziente. In questo contesto di incertezza, non ci sarà di grande aiuto la disponibilità di troponine ultrasensibili che aumenteranno la sensibilità, migliorando ulteriormente il valore prognostico negativo (se il test risulterà negativo si escluderà con altissima approssimazione un danno miocardico), ma nello stesso tempo ridurranno la specificità, aumentando il numero di soggetti che dovranno essere sottoposti a ulteriori accertamenti per confermare e definire il sospetto di danno miocardico27 e aumenterà il numero di persone trattate a vita con un cocktail di farmaci di sicura efficacia in pazienti con una necrosi estesa.

CONCLUSIONI

I progressi delle nostre capacità diagnostiche ci sollecitano problemi terapeutici nuovi, dal momento che, in mancanza di trial clinici mirati su pazienti con patologie meno gravi di quelle diagnosticate in passato, rischiamo di provocare più danni che benefici. In molti casi accettiamo in modo acritico che le evidenze scientifiche possano essere estese anche ai pazienti individuati in una fase iniziale della loro malattia, con lesioni meno invalidanti e prognosticamene più favorevoli, senza sapere quando il rischio del trattamento (costante e noto) supera il potenziale beneficio. Talvolta una diagnosi anatomica o indotta da un test di laboratorio in modo accidentale ci induce a prescrivere un trattamento di cui non conosciamo l’efficacia. Per rassicurarci a far di più seguendo le linee guida, rischiamo concretamente di far peggio.

RIASSUNTO

Il miglioramento della nostra capacità esplorativa e diagnostica ci permette di riconoscere malattie in stadi precoci o di individuarle in soggetti asintomatici e stabili e ci induce a trattarle sulla base di ricerche condotte su patologie più gravi e più acute. La nostra principale preoccupazione consiste nel non trattare un paziente per un difetto di diagnosi, esponendoci a rimorsi e talvolta a rivalse giudiziarie. Poco si riflette sul pericolo opposto: il sovratrattamento indotto da sovradiagnosi. Come esempio si riportano l’aumentato numero di diagnosi di embolia polmonare che non ha ridotto i decessi, ma ha aumentato il numero di emorragie da conseguente trattamento anticoagulante e l’aumentato numero di diagnosi di infarto sulla base del movimento della troponina. In entrambi i casi applichiamo strategie terapeutiche efficaci per quadri più avanzati e più instabili, con conseguenze che possono essere più drammatiche del non trattamento. Per rassicurarci a far di più, rischiano concretamente di far peggio.


Parole chiave. Sovradiagnosi, Sovratrattamento.

 

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Le nuove frontiere della scienza, della medicina e delle cure.

“La critica delle critiche”


Con questa pretesa, velata dal necessario equilibrio, la Fondazione Tonolli invita i Membri del Comitato Scientifico, e quanti vogliono liberamente partecipare, a riesaminare i problemi clinici più attuali alla luce del metodo clinico ippocratico cioè delle scienza dell'individuale sollecitati da Karl Popper quando ci induce alla critica della ragione mettendoci in guardia sulla “fallibilità” del metodo scientifico. Il problema diviene più complesso quando si vuole, e si deve, tenere conto delle individualità della malattia del singolo malato anche se oggi gli studi di genetica possono, o pretendono, di fare scelte terapeutiche presumibilmente più razionali o personalizzate. Spaziando oltre, ci è sembrato attuale Baltasar Gracian, noto filosofo, gesuita del '600, quando ci raccomanda che: “tutto quello che entra nell'emporio dell'anima per la via dei sensi deve superare il vaglio della ragione, tutto viene esaminato. Questa pondera, giudica, riflette, deduce ed estrae la quintessenza della verità”.
Prof. Giuseppe Riggio, Presidente Fondazione Tonolli

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